Παρασκευή 19 Φεβρουαρίου 2016

Θέμα έκθεσης: "La decrescita felice"

L'esistenza delle persone nelle società occidentali si basa sul vorticoso e snervante ciclo produzione-consumo. Ci arrabattiamo per lavorare sempre più freneticamente al fine di procurarci oggetti che non ci servono, di cui rapidamente ci stanchiamo, per rimpiazzarli con altri allo stesso modo superflui.

La pubblicità cerca con ogni mezzo di stimolare il nostro desiderio di nuove merci, facendoci sentire esclusi se non cambiamo auto o cellulare ogni anno, se non possediamo l'ultimo modello di scarpa sportiva, di televisione al plasma, PC, console per videogiochi, iPad, iPhone, se non abbiamo prenotato una crociera in mari esotici o soltanto se non consumiamo gli yoghurt della prestigiosa marca.
L'attuale crisi economica rende ancora più penosa la nostra condizione. Lo sviluppo dell'economia non sembra più garantire la creazione di nuovi posti di lavoro. Lo chiamano "sviluppo senza occupazione". E mentre le innovazioni tecnologiche renderebbero già possibile, con una diversa organizzazione sociale, di lavorare tutti meno e di godersi un po' più di tempo libero, da destinare all'ozio creativo, trascorriamo invece le nostre giornate rosi dall'angoscia da disoccupazione, alla ricerca di una attività retribuita qualsiasi, di cui la società sembra aver sempre meno bisogno.
Nel frattempo è in marcato aumento lo stress e il tasso di suicidi, il consumo di tranquillanti e di antidepressivi. E sono in aumento pure le malattie da inquinamento, causate da un modo di produrre sbagliato, il degrado sociale, le guerre, la distruzione dell'ambiente.
Ci riempiamo la bocca della parola democrazia, quando i cittadini del mondo occidentale sono sempre più diseguali. Una minoranza di persone detiene il monopolio della ricchezza. La classe media, perno dei sistemi democratici, si va pericolosamente assottigliando, risucchiata nel vortice della povertà.
L'imperativo della crescita economica ad ogni costo domina il discorso della politica, in Italia, ma anche altrove. Da un punto percentuale in più o in meno del PIL sembrano dipendere i nostri destini.
Ma c'è chi dice no. C'è chi contesta questo modo di vivere e di produrre, chi muove guerra al capitalismo finanziarizzato e globale dei nostri giorni.
Uno dei movimenti più attivi e seguiti in questa contestazione è quello che ruota attorno al concetto di decrescita, che vede come principali ispiratori l'economista Serge Latouche in Francia e il professor Maurizio Pallante in Italia.
Il movimento della "decrescita" si richiama alla qualità contrapposta alla quantità, alla centralità e alla supremazia dell'uomo e delle sue relazioni rispetto alle merci, ad una sobrietà di vita che predilige il poco allo spreco di energie e risorse che domina il ciclo capitalista, al dono in contrapposizione allo scambio mercantile.
Lo sviluppo occidentale è insostenibile per il pianeta e per gli uomini che lo abitano, l'unica soluzione è una decrescita pilotata che riduca i consumi e aumenti il tempo di vita per ognuno di noi, che migliori la qualità delle nostre esistenze, che ci renda insomma tutti più felici.
La decrescita si differenzia dal concetto, anch'esso oggi in auge, di "sviluppo sostenibile", perché critica il concetto stesso di sviluppo.
Tra i mezzi suggeriti dalla decrescita per conseguire i propri fini ci sono: la produzione (meglio l'autoproduzione) a basso impatto ambientale e il consumo a chilometri zero, con riduzione delle spese e dei rischi legati al trasporto delle merci; il riciclo, con un modo diverso di considerare il problema dei cosiddetti rifiuti; la ristrutturazione contrapposta ad una ulteriore cementificazione del territorio.
Se il movimento della "decrescita" appare convincente, anche se non originale, nella sua parte di critica alla società dei consumi e degli oggetti e al pensiero unico dettato in economia dalla globalizzazione, incentrato sugli imperativi di crescita e sviluppo perenni, meno convincenti appaiono le sue proposte "costruttive".
Spesso, nelle loro opere, i paladini della decrescita portano come esempio virtuoso l'esperienza delle tribù africane, modello tutt'altro che seducente non soltanto per la maggior parte degli occidentali, ma per gli africani stessi che, attratti dallo stile di vita occidentale, sono in gran numero disposti a traversate perigliose pur di raggiungere i nostri lidi.
La decrescita non può diventare un'ideologia regressiva, un ritorno a una mitica età dell'oro che di fatto non è mai esistita né può ritrovarsi sulla Terra. Non possiamo rinunciare al percorso culturale della nostra civiltà, all'affermarsi del concetto di individuo, di libertà, di Stato, di spirito critico e di sete di conoscenza, di sviluppo della scienza e della tecnica.
Sono molti gli economisti autorevoli, infine, che dubitano della possibilità di produrre reale benessere, individuale e collettivo, in mancanza di sviluppo.
Scettico, per esempio, è il professor Giorgio Ruffolo, già ministro della Repubblica, studioso molto sensibile ai temi della qualità della vita e di una scienza economica intesa come mezzo e non come fine.
Ruffolo si schiera sì contro la fatica di Sisifo, cui ci condanna la ricerca di una crescita continua, ma recupera il concetto di sviluppo, inteso come autentico progresso collettivo, nella speranza, fondata, condivisa con altri economisti, come Muhammad Yunus, "il banchiere dei poveri", che il capitalismo di oggi sappia riformarsi positivamente come già è avvenuto in passato.
Che è anche il nostro sincero auspicio.
Riferimenti bibliografici:
Feltri, S., "La decrescita totalitaria" in il Fatto Quotidiano, 17 febbraio 2012
Latouche, S., Breve trattato sulla decrescita serena, Torino, Bollati Boringhieri, 2008
Pallante, M., La decrescita felice. La qualità della vita non dipende dal PIL, Edizioni per la Decrescita Felice, 2011
Ruffolo, G., Il capitalismo ha i secoli contati, Torino, Einaudi, 2008         

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